domenica 19 dicembre 2010

CARTOLINA DI NATALE

Villach, Carinzia - Centro storico

Viaggiando tra Austria, Italia e Slovenia, nello splendore di una terra divisa da confini ciechi che per molto tempo hanno artificialmente nascosto una realtà di comunanza non solo geografica ma soprattutto culturale, si scorge la poesia di una cittadina adagiata ai piedi delle montagne carinziane, a uno sguardo di distanza da Tarvisio, in italia, e da Kranjska Gora in Slovenia.

Villach, Centro storico

In quell'area chiamata "dei tre confini", dove i paesi hanno più nomi. A volte addirittura 4, perchè all'italiano, al tedesco e allo sloveno, si aggiunge anche la traduzione friulana. Come Villach, il cui nome tedesco è posto a fianco di Villaco o Beljak, rispettivamente italiano e sloveno, senza dimenticare Vilac, in lingua friulana.

Villach, Centro storico - Chiesa di S. Jakob

In un paesaggio da fiaba natalizia si cammina nel bianco della neve, guardando le acque del fiume Drava, vera cerniera di quel lembo d'Europa, attraversare la città nel suo cammino verso la Slovenia prima e la Croazia poi, fino a lambire l'Ungheria e la Serbia, per incontrare infine il Danubio.

Mercatini di Natale

Si passeggia sorseggiando vin brulé per far fronte al freddo, inoltrandosi nel centro storico tra le bancarelle del mercatino di Natale e gli edifici colorati lungo la strada pedonale, prima di fermarsi a visitare la chiesa di S. Jakob con la sua imponente torre.

Sguardo sul fiume Drava

Tra locali tipici e vette innevate in lontananza si può riflettere intravedendo una medesima anima per molte valli e paesi sparsi al di quà e al di là dei confini, che non si cura delle bandiere nazionali vivendo oltre queste, nella terra dei tre confini e nessun confine.

martedì 7 dicembre 2010

I COLPI DI CODA DI UN IMPERO IN DECLINO

Pubblicato su ilgiornaledelribelle.com

La grave crisi economico-finanziaria che l’occidente sta vivendo, tutt’altro che in via di risoluzione, porta con sé i segnali di un potenziale cambiamento strutturale e sistemico. È forse riduttivo, infatti, derubricare tale fase storica, caratterizzata da possibili fallimenti in serie di Stati sovrani, alla categoria delle tempeste passeggere che, periodicamente, il capitalismo si trova a fronteggiare.
Nel più assoluto silenzio da parte dei media americani e mondiali, infatti, il debito pubblico statunitense, il novembre scorso ha superato, per la prima volta nella storia, i 12.000 miliardi di dollari. Una cifra spaventosa, in crescita da ben prima della crisi del 2008. Nel 2001 il debito americano cresceva di 133 miliardi di dollari; nel 2002 l'aumento era di 420 miliardi; poi, per cinque anni consecutivi cresce ogni anno di circa 500/550 miliardi. Nel 2008 raddoppia: in un solo anno aumenta di 1.017 miliardi. Nel 2009 , quasi un altro raddoppio: cresce di altri 1.885 miliardi.
Il debito cresce per la necessità da parte delle Istituzioni di tamponare le falle aperte da banche e finanza, privatizzando le ricchezze che, invece di essere utilizzate per scuola, sanità ed educazione, vengono regalate agli stessi soggetti, Wall Street e dintorni, colpevoli e artefici del disastro. “La Federal Riserve” scrive Giulietto Chiesa su megachip, “cioè la Banca Centrale americana, annuncia l'acquisto di 600 miliardi di dollari. Lo chiamano acquisto, purchase in termine tecnico, ma si deve leggere stampa. Altri 350-500 miliardi di dollari verranno prelevati dal debito che la Fed ha già acquisito, proveniente dai derivati tossici dei mutui facili, e investiti. Leggi immessi sul mercato. Totale: all'incirca 1000 miliardi di carta, semplice carta, che la Banca Centrale Usa stampa per comprare i titoli del debito pubblico americano. Se a questi si aggiungono, e occorre farlo perchè sono a bilancio, i circa 800 miliardi già stampati per salvare le banche americane dal tracollo, si arriva a un trilione e 800 miliardi di dollari. Una creazione di moneta che non ha precedenti nella storia di tutti i tempi”.
Una notizia ripresa anche dal Sole24Ore che, seppur in termini più morbidi rispetto a Chiesa, non può non sottolineare l’anomalia del provvedimento. “Si tratta di misure drastiche, mai prese prima, se non a ridosso della crisi” scrive il quotidiano di Confindustria. “Dopo i circa 2.000 miliardi di dollari iniettati nell'economia all'apice della crisi, la Fed versa altri 600 miliardi di dollari per cercare di rilanciare l'economia statunitense”. Si cerca di ammorbidire, ma la realtà è evidente. Ed è che gli Stati Uniti si avviano ad essere, come detto recentemente dall’ex ministro italiano Luigi Spaventa, “il Paese più indebitato del mondo e con la situazione fiscale meno sostenibile”.
Tutto ruota attorno al debito, quindi, il vero nodo scorsoio dei nostri tempi. Il creditore non si limita infatti a comprare titoli di debito di un altro Stato, ne acquista porzioni di sovranità, condiziona e controlla. Chi possiede il tuo debito diventa il tuo padrone . E il padrone della sovranità statunitense, almeno della sua gran parte, fino a poco tempo fa era la Cina che nel 2007 comprava il 47%, quasi la metà, delle nuove emissioni di cedole americane. Dal 2008 in poi, però, il dragone ha iniziato progressivamente a defilarsi, arrivando l’anno scorso a possedere non più del 5%. “In queste condizioni” aggiunge Chiesa “non c'è più modo per pareggiare la bilancia commerciale degli Stati Uniti. Con un debito di queste dimensioni bisogna inoltre mettere a bilancio 300 miliardi di interessi annui da pagare. Come? Non lo sa nessuno”. Ed è qui che si inserisce la Fed con l’operazione 600 miliardi, il cui effetto primo sarà un’impennata inflattiva mondiale, con relativa, surrettizia, svalutazione del dollaro per favorire le esportazioni Usa. Una mossa disperata, che non basterà.
Per quanto tempo ancora, quindi, il maggior debitore al mondo potrà continuare a essere la massima potenza? E siamo al capitolo sospetti. L’Europa è, da mesi ormai, sotto attacco della speculazione. Dopo la Grecia siamo al secondo salvataggio, quello dell’ex tigre celtica irlandese. Un soccorso che sembra tutelare più i creditori, ovvero le banche europee e tedesche in particolare, piuttosto che i debitori, cioè i Paesi diretti interessati, le cui popolazioni dovranno sopportare politiche draconiane di tagli in ogni ambito per consentire alle istituzioni finanziarie di sopravvivere. Le banche teutoniche infatti hanno in pancia 184 miliardi di dollari di buoni del Tesoro irlandesi, 238 miliardi di titoli spagnoli, 190 di italiani, 45 miliardi di titoli greci e 47 di titoli portoghesi. In poche parole se fa bancarotta l’Irlanda e il contagio si dovesse espandere agli altri anelli deboli della catena, Portogallo, Spagna e Italia, a chiudere per prime sarebbero proprio le banche di Berlino. E se cade la Germania, l’Europa intera seguirà. I mercati però continuano ad andare giù nonostante gli stanziamenti di denaro, segno che è il sistema tout court a non essere più credibile. Ma chi ha creato i presupposti affinché ciò accadesse?
La crisi dell’euro è in realtà il risultato di una strategia preparata dal Consiglio dei consulenti economici della Casa Bianca per salvare l’economia statunitense, costringendo i capitali europei a rifugiarsi oltre Atlantico, e riportando l’economia della zona euro sotto il controllo degli Stati Uniti attraverso il Fondo Monetario Internazionale, nel quale essi hanno la maggioranza dei voti. La crisi è scaturita dall’attacco simultaneo delle agenzie di rating statunitensi Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch contro il debito di Grecia, Irlanda e Spagna. Questi attacchi sono stati appoggiati dall’apparato statale americano: emblematiche sono le dichiarazioni del consigliere economico del presidente Obama, ex presidente della Federal Reserve, Paul Volker, che ha parlato di una futura "disintegrazione della zona euro". Tutto ciò serve a ricondurre agli Stati Uniti i capitali stranieri necessari alla copertura del deficit crescente della bilancia finanziaria negli USA, ma costituisce anche un segnale d’avvertimento alla Cina, che aveva cominciato a riequilibrare le sue riserve in valuta acquistando l’euro a discapito del dollaro.
Qualunque cosa accada, che il crepuscolo dell’era americana faccia scendere o meno le tenebre anche sul resto dell’Occidente, siamo alla vigilia di cambiamenti epocali, creati da una crisi il cui acuirsi potrebbe portare “a una decrescita ravvicinata e drammatica” come sottolinea Giulietto Chiesa. E forse dovremmo iniziare e prepararci a questa eventualità. “Tutte le correnti di pensiero” scrive Massimo Fini in un suo recente articolo “che ci hanno ragionato sopra (americane tra l’altro: il bioregionalismo e il neocomunitarismo) parlano, per evitare l’apocalisse prossima ventura, di un ritorno ‘graduale, limitato e ragionato’ a forme di autoproduzione e di autoconsumo che passano necessariamente per un recupero della terra e un ridimensionamento drastico dell’apparato industriale, finanziario e virtuale”. Non è fantascienza, è la realtà che ci siamo creati e che ci sta piovendo addosso.

domenica 21 novembre 2010

ALLA SCOPERTA DEL QUARTIERE TRIESTE

Via Taro


Non solo Villa Ada, con i suoi angoli splendidi e selvaggi, o il quartiere Coppedè, dal nome dell'architetto visionario e geniale che ideò le celebri palazzine nell'area di Piazza Mincio. Oltre la Sedia del Diavolo, perla del II secolo dopo Cristo assediata dal cemento, e la millenaria bellezza delle catacombe di Priscilla, si aprono, allo sguardo di chi cerca, i tesori inaspettati del quartiere Trieste di Roma. Scrigni nascosti, scorci pregevoli degni di ammirazione e attenzione.

Piazza Caprera
 
Da Villa Paganini, gemma settecentesca che brilla tra villette immerse nel verde e stradine quiete, al mausoleo di S.Costanza che, con i suoi mosaici del IV secolo, si erge accanto alla basilica di S. Agnese fuori le mura, costruita sulle omonime catacombe e sulle vestigia della più antica basilica costantiniana. E poi Via Taro e Via Adige, Piazza Verbano e Via Reno, fino al parco Virgiliano, più noto come Nemorense e Corso Trieste, cuore di uno dei quartieri più suggestivi di una delle città più belle del mondo.

Villa Paganini
 




giovedì 21 ottobre 2010

PERICOLO RECINZIONI


L'apertura, circa un metro di diametro, che ha giustificato
la chiusura al pubblico di quasi un ettaro di Villa Ada,
nell'area "ex scuderie Reali"



Si ergono reti metalliche a Villa Ada, lo storico parco pubblico romano. Dopo quella sorta nell'area adiacente all'ambasciata egiziana, infatti, un nuovo vasto lembo di verde, sempre nell'area delle "ex scuderie reali", sta per essere interdetto al passaggio dei visitatori. La motivazione alla base di entrambi i provvedimenti, emessi nell'arco di breve tempo, è la medesima: pericolo smottamenti.
Non è una novità che l'ex villa Savoia sia soggetta a tali fenomeni, sorgendo esattamente sopra le catacombe di Priscilla, fra le più estese di Roma, le cui gallerie si dipanano per chilometri e possono causare cedimenti del terreno sovrastante. Un simile zelo nel preservare la pubblica incolumità, però, in una zona, peraltro, da tempo al centro di progetti di valorizzazione e riqualificazione urbana, è senza precedenti. Questa sì, una novità.
La mente torna al celebre progetto relativo al "Museo del giocattolo", che dovrebbe sorgere proprio dove ora spuntano le recinzioni. "A metà 2007" scriveva nell'aprile 2008 Giuseppe Mele su fainotizia.it "il Consiglio Comunale romano approvò in una delle tante deroghe al PRG la cementificazione di Villa Ada per migliaia di mq per realizzare bar, ristoranti, sala polivalente per conferenze e spettacoli, attività commerciali, un centro di cultura ludica e parcheggi, incluso il mitico Museo del Giocattolo, che da solo costerebbe 2 milioni di euro ma che col resto tocca i 15 milioni. Il Comune, tra l'altro, per mettersi avanti aveva comprato già nel 2005, dall'imprenditore perugino Emilio Servadio, una collezione di circa 11 mila bambole, trenini e pupazzi provenienti dal Lagetoismuseet di Stoccolma per circa 5 milioni. Il puzzle si ricompone" concludeva Mele "sempre allo stesso modo e si ritorna, tra cementificazioni e museo del giocattolo, alla voglia di far guadagnare ai gestori soldi facili".
Alcuni mesi prima dell'articolo pubblicato da Mele, inoltre, Maria Pia Pettograsso aveva scritto al blog di Beppe Grillo un commento in cui esprimeva, a nome di alcune importanti associazioni come Italia Nostra, Villa Ada Greens e Wwf, preoccupazione per le mire speculative sul parco: "Nuove costruzioni, aumenti di migliaia di metri cubi ex novo per la realizzazione di cafeterie, ristoranti, una sala polivalente per conferenze, proiezioni e spettacoli, un 'centro di cultura ludica' destinato anche ad aste pubbliche, attività commerciali per la vendita di gadget e pubblicazioni relative al Museo Europeo del Gioco e del Giocattolo (MeGG), un parcheggio per centinaia di macchine e il passagio continuo di navette per i visitatori rischiano di compromettere per sempre un grande complesso storico ambientale, patrimonio unico della Capitale". A pochi anni di distanza dalle coincidenti disamine di Mele e della Pettograsso, infine, è nata la questione delle recinzioni, di cui si è occupato anche il Corriere della Sera, su denuncia di Legambiente. Nell'articolo in questione, però, si parla di tutto, dalle biomasse alle botticelle, meno che del progetto MeGG e delle relative prospettive per l'area.
Bisogna fare chiarezza, quindi, e capire in cosa consista questo Museo del Giocattolo. Cosa si vuole fare e come. Se valorizzazione significa recuperare degli edifici di grande valore storico e artistico da decenni in stato di totale abbandono e degrado, per donarli alla città e ai cittadini a cui appartengono, credo ragionevolmente siano tutti d'accordo. La questione cambia se il progetto è quello di utilizzare risorse pubbliche per allestire la solita corte dei miracoli, tra speculazione e affarismo. Non sarebbe un bell'inizio per la neonata Roma Capitale.

La seconda recinzione sorta nell'area delle ex Scuderie Reali

domenica 10 ottobre 2010

DI UN ALTRO PIANETA

PalaEur gremito in occasione di Italia-Brasile,
semifinale del campionato mondiale di Volley
(slide)



La nazionale italiana di volley perde nettamente per 3-1 la semifinale del mondiale di casa contro gli inarrivabili fenomeni Brasiliani, poi riconfermatisi campioni per la terza volta consecutiva in una finale dominata con facilità disarmante, senza concedere alla malcapitata Cuba neppure un set. Gli Azzurri chiudono al quarto posto la competizione iridata, avendo lasciando il bronzo alla Serbia nel match per il terzo posto.
Niente da fare, quindi, per il pubblico dell'ex PalaEur di Roma, che per l'occasione aveva fatto registrare uno strepitoso sold out con oltre 12 mila appassionati sugli spalti. In una riedizione del "non succede, ma se succede" di romanista memoria, i tifosi italiani avevano sperato fino all'ultimo di sovvertire i pronostici che vedevano i propri beniamini partire sfavoriti contro i fuoriclasse sudamericani pluricampioni e dominatori degli ultimi 10 anni, ma così non è stato. E alla fine, amaramente, si è avuta una riedizione, ma del noto slogan sbattuto sadicamente da Josè Mourinho in faccia a chiunque non potesse vantare neppure una vittoria: "Zero tituli".
I giocatori italiani, tuttavia, una grande vittoria l'hanno ottenuta: hanno costretto i media nazionali, attentissimi anche per la più infima delle gare di calcio ma latitanti su qualsiasi altro sport, ad accendere i riflettori su un campionato mondiale bellamente ignorato per quasi tutto il periodo di svolgimento, tranne qualche gara confinata sui canali meno celebri della tv pubblica. Torneo, per giunta, giocato in casa e relativo a una delle discipline più praticate anche nel nostro Paese. Ebbene, dopo oltre due settimane, solo il giorno prima delle semifinali, ovvero a due giorni dalla conclusione della manifestazione e con gli Azzurri ancora in lotta per il titolo, a Viale Mazzini hanno deciso per la trasmissione in diretta addirittura su Rai 3. Troppo onore.
Resta ad ogni modo il grande successo di pubblico, non solo nella Capitale ma in ogni altra città in cui si sia giocato, e la buona immagine data grazie ad un'organizzazione che si è dimostrata ottimale. Una grande notizia quest'ultima, davvero, per un Paese che non dà sempre prove positive relativamente a efficienza e buona gestione. Buon viatico, oltre che buon esempio, per il futuro. Speriamo.


lunedì 13 settembre 2010

LA FELICITÀ AI TEMPI DEL DENARO




L'accesso al denaro, nella moderna società dei consumi, è considerato universalmente il fattore chiave per coronare il sogno di una vita stabile e serena. Il mercato, infatti, mette a disposizione di chi è maggiormente solvibile un'infinità di prodotti che, complici le sempre più sottili tecniche di marketing e la quotidiana spinta all'acquisto costituita dalla pubblicità, superano i limiti connessi al proprio essere semplici oggetti e divengono veri e propri surrogati della felicità. Da mezzi utili a rendere più agevole la vita, a fine ultimo della stessa.
"Nella teoria economica classica di stampo utilitaristico, tuttora dominante, così come nell'immaginario contemporaneo prevalente" scrive Paolo Cacciari, autore di Pensare la decrescita, equità e sostenibilità "vi è una corrispondenza diretta, automatica, tra 'ricchezza' e 'felicità', tra abbondanza e benessere, tra prosperità economica e tenore di vita delle persone e delle popolazioni. Gli economisti illuministi del '700 pensavano l'economia come 'scienza della felicità pubblica' e nella Dichiarazione di indipendenza della Virginia (1776) Thomas Jefferson introduce tra i diritti inalienabili di 'tutti gli uomini': 'la vita, la libertà e il perseguimento della felicità'".
La disponibilità di denaro costituisce indubbiamente un fattore determinante nell'affrontare le vicissitudini della quotidianità, ma è altresì vero che, partendo da tale concezione, si è arrivati a una sovrapposizione semplicistica tra bene materiale e immateriale, tra mezzo e fine. Tale inquietudine è condivisa anche da larga parte del mondo economico e spinge da tempo a riflettere sull'economia della felicità, "una sottodisciplina delle scienze economiche politiche" aggiunge Cacciari "che si interroga sulle relazioni tra crescita economica e condizioni psicologiche per tentare di caratterizzare, misurare e contabilizzare le interrelazioni tra tenore di vita e felicità". Una nuova unità di misura per il benessere delle società, quindi, alternativa al tradizionale Pil, per rispondere efficacemente non già a interrogativi strettamente economici, ma a problematiche legate alla way of life occidentale.
"Il primo Paese che ha deciso di cambiare la sua unità di misura del progresso" scrive il sociologo spagnolo Manuel Castells su Internazionale del 10 settembre "sostituendo il calcolo del Pil con l'indice di felicità nazionale lorda è il Bhutan" sin dal 1972. "L'indice combina tra loro quattro obiettivi: sviluppo economico equo e sostenibile, in cui la crescita si traduca in benefici per i cittadini, la conservazione dell'ambiente naturale, la difesa dell'identità culturale butanese, un buon governo che garantisca stabilità istituzionale e sociale. [...] Questa nuova prospettiva si è estesa a tutto il mondo [...] e così sono emerse alcune cose interessanti. Per esempio che i ricchi sono più felici dei poveri, ma i Paesi ricchi non sono più felici di quelli poveri. Gli abitanti della Costarica sono più felici di quelli degli Stati Uniti, perchè la felicità dipende dalle aspettative ma anche dalla stabilità".
Opulenza in sé, quindi, può non significare automaticamente progresso e qualità della vita, anche perchè questi concetti si legano a parametri difficilmente quantificabili in termini strettamente economici. Senza dimenticare che, spesso, l'uomo tende a trascurare gli aspetti più profondi e preziosi della propria vita per il lavoro, inteso principalmente come strumento di accumulo. "Se per ottenere ciò che voglio" scrive Cacciari "devo sacrificare sonno, salute fisica e mentale, relazioni affettive, patrimonio comune etc., la mia qualità della vita diminuisce anziché aumentare. [...] Se questo permanente sforzo produttivo non centra l'obiettivo del maggiore benessere individuale, che senso ha compierlo? [...] L'economia di mercato di stampo liberista ha una logica intrinseca: la crescita, la creazione di profitto, l'accumulazione. Il quesito che si pone è questo: se le merci non sono più utili al benessere e alla felicità della gente, ha ancora un senso sociale l'economia di mercato? Ha senso continuare a far crescere produzione e consumi quando le dispense sono piene? Non sarebbe più logico e sensato porre l'accento su altri obiettivi, quali l'equa distribuzione delle risorse e dei prodotti e sulla sostenibilità ecologica del sistema?".
Produciamo e consumiamo di più, quindi, ma non per questa ragione siamo più sereni e le nostre vite più stabili. Focalizzare il problema costituirebbe un primo passo nella direzione giusta, quella della consapevolezza, l'autocoscienza che segna l'inizio del cammino verso una soluzione comunque non semplice né immediata. "Il concetto di felicità" conclude Castells "data la difficoltà di misurarlo, si è trasformato in quello di utilità e il suo criterio di misura è diventato il prezzo. Ma il consumo individuale non può sopperire ai bisogni che il mercato non è in grado di soddisfare, dal bisogno di affetto a quello di difendere i beni comuni (come la Natura)".
Prima che di una nuova teoria economica serve un'idea diversa di essere umano, quindi, non concepito semplicemente come risorsa umana o consumatore, termini utilizzati con sorprendente distacco da chi, non accorgendosi di quanto siano umilianti, finisce per insultare anche se stesso.

giovedì 26 agosto 2010

HRVATSKA & POLSKA

Dall'incantevole penisola istriana, tra vestigia romane, mare e borghi in stile veneziano con reminiscenze bizantine, alla Polonia meridionale. Resovia e il suo centro storico, la splendida Cracovia e l'incontaminata bellezza del parco nazionale di Ojcow. Breve resoconto in immagini di un viaggio.




lunedì 12 luglio 2010

GIOCO DI SQUADRA



La Spagna vince la sua prima coppa del mondo di calcio, completando così un cammino che negli ultimi anni l'aveva portata a primeggiare in molte discipline, dal basket al tennis fino alla formula 1 e al ciclismo. Mancava solo lo sport più popolare, quello che fa scendere in strada interi Paesi per festeggiare notti come quella del Soccer City. Domata l'Olanda nella finale di Johannesburg con il gol di Andres Iniesta, la Roja centra anche la storica doppietta europeo/mondiale, dopo il successo del 2008 in Austria-Svizzera. Eguagliate così la Germania Ovest, sul tetto continentale nel 1972 e su quello mondiale due anni più tardi, e la Francia che, con il percorso inverso, si aggiudicò prima la coppa dorata in casa nel 1998 e poi, nel 2000, l'europeo ai danni degli Azzurri. Finita l'epoca dei "belli e perdenti" e sfatato il tabù dei quarti di finale, gli iberici si impongono alla prima occasione utile: prima finale, primo titolo.
Hanno vinto i migliori, la squadra che più di tutte ha cercato di creare calcio facendosi largo in un torneo deludente e mediocre, povero di tecnica e ricco di delusioni. Senza stelle a illuminare il proscenio e a guidare le proprie compagini tatticamente incompiute, molte protagoniste annunciate si sono sfaldate alle prime difficoltà, evidenziando impietosamente le lacune e gli errori dei propri allenatori. Il primo mondiale in Africa ha decretato la rivincita del collettivo sui singoli, i quali non possono prescindere dal gruppo mentre quest'ultimo, invece, può con la propria organizzazione di gioco supplire alle mancanze dei campioni. Falliscono infatti Argentina e Brasile, giganti dai piedi d'argilla ricchi di talento inespresso e privi di un'idea, di uno spartito che facesse suonare armonicamente i singoli strumenti. Ci si affidava perciò esclusivamente all'estro del genio, che può sì fornire l'acuto finale che rende il tutto magnifico, ma quando attorno si sviluppa l'arte dell'orchestra, non in sostituzione di questa. L'Uruguay che ha sfiorato l'impresa con l'Olanda e il Paraguay che ha spaventato la Spagna neo campione ne sono testimoni, ma non solo loro. Dal Giappone al Ghana, fino al Cile e al Messico, tutte nazionali che hanno dimostrato di avere una struttura, un'anima.
Le stesse protagoniste della finale confermano questo dato, entrambe ricche di individualità poste, però, all'interno di un chiaro contesto tattico. Più "italiani" gli oranje, con Van Bommel e De Jong a costituire la diga di centrocampo, per fermare gli avversari e ripartire con le rapide geometrie di Robben, Snejder e Kuyt. Stelle che, tuttavia, non mancavano di ripiegare in aiuto della squadra, nelle fasi di difficoltà. Prima gli equilibri, quindi, poi la gloria personale. Discorso analogo per gli spagnoli, pur votati al bel calcio e al possesso palla con la classica, infinita rete di passaggi in mezzo al campo. Giocatori di grande tecnica come Xavi, Iniesta, Xabi Alonso e Busquets, con un altro giocoliere come Fabregas in panchina, hanno concretizzato al meglio l'idea di vincere divertendo, da tempo concetto guida del futbol iberico. La teoria che diviene realtà attraverso gli uomini, giocatori che agiscono insieme, ognuno interpretando il proprio ruolo appieno e mettendo fantasia ed estro al servizio dell'obiettivo.
La Spagna ha vinto dopo aver atteso molto tempo, dopo aver fatto maturare talenti che oggi incantano il mondo giocando a memoria un ottimo calcio. La Roja raccoglie il testimone dall'Italia di Berlino 2006, che ha fortemente deluso in Sudafrica e che, per l'avvenire, deve seguire lo stesso modello dei neocampioni: rinnovamento, programmazione, giovani e pazienza. Non semplicemente per vincere, ma soprattutto per dare un segnale di cambiamento, non solo nel calcio.


venerdì 25 giugno 2010

COME TE NESSUNO MAI




La nazionale italiana torna ignominiosamente a casa al primo turno del mondiale sudafricano senza neppure una vittoria. Non era mai accaduto prima. Neanche nel famigerato 1966, quando non superammo il girone perdendo anche con la Corea del Nord, ma almeno battemmo 2-0 il Cile. Per non parlare del 1974, quando sì, uscimmo subito, ma "spezzammo le reni" ad Haiti con un tondo 3-1. I peggiori di sempre, quindi, con il piccolo dettaglio che stavolta eravamo campioni uscenti, e ora, con ironica velocità dal participio presente a quello passato, solo usciti.
Di solito le sconfitte sono orfane contrariamente alle vittorie che, come ci insegna il 2006, hanno parecchi genitori putativi, ma stavolta non è possibile prescindere dall'enormità di quello che è successo. Prendersela con Marcello Lippi è sicuramente appagante nell'immediato, per tutte le conferenze stampa e interviste in cui il tecnico viareggino ha elargito arroganza e presunzione a piene mani, ma non aiuta a riflettere sulle cause del disastro.
Il gran numero di stranieri nelle squadre di club non è un'esclusiva italiana, caratterizza tutti i maggiori campionati a cominciare dalla Spagna, la cui nazionale è campione d'Europa in carica ed esprime talenti immensi. Senza contare che, quando gli Azzurri vinsero a Berlino, i team di serie A erano già pieni di giocatori non italiani. Oltre l'evidente mancanza di impegno che ha contraddistinto le gare dell'Italia in Sudafrica e che, probabilmente, è la prima causa di una simile disfatta in uno dei gironi più ridicoli che si siano mai visti ad un mondiale, vi è forse un problema più generale di pianificazione e strategia, legato alla mancanza di idee che possano permettere di gettare le basi per un rinnovamento vero del sistema calcio.
Le società di club, specie quelle più blasonate, sono condannate a vincere nel più breve tempo possibile e, come qualsiasi altra azienda privata, lo devono fare con il minore costo economico possibile. Questo accade perchè nella maggioranza dei casi i club si autofinanziano, e non possono permettersi bilanci avventurosi. Massimo risultato col minimo sforzo. In quest'ottica è molto più redditizio puntare su giovani promesse straniere da portare in Italia a prezzi di saldo, non potendo le società di calcio delocalizzare in Romania e Thailandia come altre imprese "globalizzate", piuttosto che costruire o puntare su un vivaio che darebbe frutti solo dopo diversi anni. Il tempo stringe e le vittorie servono subito. Tale discorso vale, però, anche per i pochissimi presidenti paperoni che, potendosi permettere acquisti scenografici grazie all'infinita disponibilità di denaro, preferiscono puntare su campioni affermati di sicuro e garantito rendimento per conseguire importanti vittorie senza dover attendere troppo. In entrambe le situazioni a perderci sono i ragazzi autoctoni, che hanno spazio solo in quelle realtà che storicamente hanno fatto la scelta della valorizzazione del vivaio, oppure nelle piccolissime società relegate nelle serie minori. Giovani che nessuno vedrà mai, o almeno prima che quello stesso club chiuda per mancanza di fondi o che le esigenze della vita convincano il giocatore a trovarsi un lavoro normale.
Il calcio italiano sta soffocando, togliendo linfa alle proprie radici e optando per la navigazione a vista piuttosto che su una rotta che porti da qualche parte. Un aspetto che unisce curiosamente il pallone ad altri ambiti e contesti nostrani. "Di sicuro l'impressione che dà questa spedizione" scriveva Oliviero Beha su Il Fatto Quotidiano del 22 giugno, due giorni prima della vergogna con la Slovacchia "è quella che dà la classe dirigente del Paese: senza ricambi, senza reale meritocrazia, senza gusto del rischio, senza umiltà, senza autocritica. È raro che una situazione riassuma in sè uno status generale: mi sembra proprio che la Nazionale del secondo Lippi riesca a tracciare questo affresco pericolante in modo splendido e compiuto. È come se dal Sudafrica ci fotografassimo come Paese con l'autoscatto".
"L'Italia riparte da voi", sentenziava il Presidente Napolitano all'indomani del trionfo di Berlino nell'estate del 2006, sperando che la quarta stella fungesse da spinta salvifica per una redenzione che andasse oltre lo sport. Quattro anni dopo quelle auliche parole ci troviamo di fronte un Paese che, esattamente come i propri ex beniamini, non solo non si è mai mosso, ma se anche riuscisse a farlo non saprebbe dove andare. Auguri.

lunedì 31 maggio 2010

INGRESSO LIBERO

Motocicli parcheggiati all'interno di Villa Ada (ingresso Via Salaria altezza Via Nera)



Un’oasi nel cuore della città, Villa Ada è uno dei gioielli di Roma, uno scrigno pieno di ricchezze naturalistiche e storico-archeologiche che, come in un museo a cielo aperto, il visitatore può ammirare tornando indietro nel tempo, allontanandosi dal caos della città.
Si va infatti dall’VIII secolo avanti Cristo, con i resti dell’insediamento urbano di Antemnae alla congiunzione fra Aniene e Tevere, al ‘700, quando i principi Pallavicini costruirono il Tempio di Flora, il Belvedere e il Cafehaus. Dopo vennero i Savoia e successivamente, quando Umberto I decise di vendere la tenuta, il conte Tellfner, che intitolò il parco alla moglie, Ada. Il nome rimase immutato anche nel XX secolo, fino a giungere ai giorni nostri. Uno spaccato affascinante della storia millenaria di Roma, quindi, un bene da valorizzare e proteggere.
Oggi, il secondo parco più grande della Capitale dopo Villa Pamphili, è tra i più amati dalla gente e teatro di varie iniziative. Dai festival estivi al fitness all’aperto, senza dimenticare le corse campestri per amatori di tutte le età e i “percorsi vita” per chi vuole semplicemente tenersi in forma respirando aria pura. Una rosa a cui, però, non mancano le spine. L'appeal della villa, infatti, porta con sé anche dei problemi, riconducibili al grande afflusso di persone attirate dalla bellezza del parco e dalle attività che offre, specie nella bella stagione.
L’ingresso di Via Salaria all’altezza dell’incrocio con Via Nera ad esempio, denominato “dei cavalli” per le due statue equestri ubicate ai lati del cancello, è divenuto un parcheggio per motorini. Molti ragazzi, infatti, entrano all’interno di Villa Ada direttamente a bordo dei propri motocicli, lasciandoli in sosta selvaggia a ridosso delle aree verdi. Questa cattiva abitudine, ormai consolidatasi e divenuta prassi, rischia di creare gravi disagi, nonché pericoli, con l’avvicinarsi dell’estate, e con l’aumento del flusso di visitatori nel parco. L'intera zona trasformata in parcheggio per moto e motorini, infatti, con l’avanzare della bella stagione è percorsa in numero sempre maggiore da famiglie, mamme con passeggini e amanti del jogging. Il transito degli scooter, quindi, potrebbe originare situazioni spiacevoli. Nel parco, tuttavia, non entrano solo motocicli. Non lontano dall’ingresso dei cavalli, infatti, un ampio viale che corre tra l’ambasciata egiziana e il laghetto viene costantemente percorso, oltre che da scooter e quadricicli, le famose “macchinine” guidate da minorenni, anche da vere autovetture, sovente di grossa cilindrata, che sfiorano i passanti. Questa strada sterrata conduce a un maneggio ubicato a diverse centinaia di metri dall’ingresso di Villa Ada, in un’area boscosa non lontana dalle ex scuderie reali, i due edifici che presto potrebbero essere trasformati nel nuovo Museo del Giocattolo dall’amministrazione comunale.
Villa Ada, il tesoro naturale e culturale, il parco sotto al quale corrono le millenarie gallerie delle catacombe di Priscilla, è un vero dono per tutti i cittadini, ma merita protezione e rispetto. Facciamo sì che la storia continui.


Vettura in transito all'interno di Villa Ada. Da Villa Ada, ingresso libero

lunedì 26 aprile 2010

ITINERARI SENESI


Le colline del Chianti al tramonto

Tutte le foto

Il piacere di un viaggio, così come il suo più profondo significato, è racchiuso in una semplice parola: scoperta. Una rivelazione, una luce che accende l'anima mentre si guarda un paesaggio o un castello, un'antica chiesa o un vigneto disteso su una collina.

Radda in Chianti

Un segreto che si svela all'improvviso e rasserena. Scoprire è conoscere, conoscere è capire, capire è dare significato alle cose, rispondere a domande. Tale verità vive ovunque si vada con l'intento di crescere e arricchirsi, dall'altra parte del mondo o nel borgo a pochi chilometri da casa. In questo caso, esperienze ed emozioni giungono dalla terra senese, gioiello culturale e naturalistico.

S. Gimignano

Dal suggestivo profilo di Monteriggioni, le cui alte mura furono per secoli simbolo di inespugnabilità, alle celebri torri di San Gimignano, emblema del medioevo italiano. E poi la strada che si inerpica verso Castellina e Radda sulle colline del Chianti, con vigneti a perdita d'occhio e colori meravigliosi che cielo e terra regalano insieme.

Siena, piazza del Campo

Un'avventura da vivere senza programmi o tabelle di marcia, per avere l' estrema libertà di seguire una strada sterrata che si perde in un bosco verso una necropoli etrusca, o in direzione di una fattoria nella quale assaggiare un calice di vino frutto delle uve cresciute a pochi passi da voi. Al di fuori degli usuali percorsi, infatti, si possono scovare tesori inaspettati, non meno preziosi di quelli racchiusi in teche o dietro spesse vetrate in musei o chiese, in quanto frutto della curiosità e della volontà, caratteristiche peculiari e imprescindibili di un vero viaggio.

Non essere convenzionali o consuetudinari, farsi guidare dall'improvvisazione ignorando orologi e scadenze, andando lentamente per godersi i panorami, ascoltare il silenzio attorno a noi, una voce flebile, che non siamo più abituati a sentire, ma che ha molto da dirci.


Le mura di Monteriggioni, Da Itinerari senesi

martedì 30 marzo 2010

ONDA ANOMALA




Hanno vinto la Lega e l'astensione. Questa sembra essere la chiave di lettura per comprendere l'esito delle elezioni regionali del 28 e 29 marzo. Il Carroccio dilaga al nord e non solo, portando due propri candidati, Luca Zaia e Roberto Cota, alla presidenza rispettivamente di Veneto e Piemonte e insidiando seriamente, nelle regioni più ricche e produttive del Paese, la leadership di Silvio Berlusconi. Il partito del premier, infatti, il Popolo della Libertà, rispetto alle elezioni europee del 2009 perde quasi il 9%, sprofondando dal 35,3 al 26,7%. Molto prima dei festeggiamenti leghisti e del centrodestra, però, era già chiaro a tutti che la disaffezione alla politica avrebbe condizionato i risultati elettorali attraverso il fattore astensionismo. Il dato definitivo del non-voto ha fatto registrare infatti il 36%, con un aumento del 7,8% rispetto alle ultime tornate elettorali. Una cifra record, con un elettore su 3 rimasto a casa.
"Il forte decremento nella partecipazione elettorale" scrive Renato Mannheimer sul Corriere della Sera del 30 marzo "costituisce senza dubbio uno degli esiti più rilevanti, se non il più importante [...] di queste elezioni regionali. Il calo complessivo della quota di votanti è uno dei più elevati riscontrabili negli ultimi dieci anni. Le motivazioni principali [...] sono legate soprattutto ad un allontanamento dalla politica [...] sentita sempre più come lontana (e talvolta irrilevante) dalla vita di tutti i giorni".
Certo, non ha contribuito a portare gente ai seggi l'ultima surreale campagna elettorale, fondata sulla dicotomia odio/amore e non sulla crisi economica. Zero lavoro, nulla su disoccupazione, inoccupazione o famiglie in difficoltà. Nessuno che abbia avuto la decenza di affrontare il problema dei siti su cui costruire le famose centrali nucleari, né proporre idee per il futuro di un Paese che ha, è bene ricordarlo, 6 volte il debito pubblico della Grecia che è di fatto già fallita e ha visto crollare negli ultimi anni Pil, entrate fiscali e, addirittura, i consumi di generi alimentari. Molti critici del fenomeno astensionista hanno obiettato che disertando le urne ci si abbandonerebbe all'altrui volontà, a partiti la cui matrice politica, peraltro, muta a seconda che la critica al non-voto provenga da un elettore di destra o sinistra. Ma la radice del malcontento sembra, a ben vedere, più profonda: "Buona parte delle astensioni" prosegue Mannheimer sul Corriere "sono dettate da un atteggiamento di grande interesse per la politica (come si rileva ad esempio dai numerosi messaggi da parte di astenuti giunti in queste ore ai vari blog nella rete), cui si accompagna però un'altrettanto sensibile disaffezione verso i suoi protagonisti, leader o partiti". Inchieste bipartisan e scandali assortiti, perciò, non fanno bene alla partecipazione democratica.
Una marea montante, quindi, quella del non-voto, destinata a vedere le proprie fila ingrossarsi a ogni tornata elettorale, specie se non cambierà l'approccio alla politica. Non ci sarebbe da rallegrarsene, se solo non si tentasse di minimizzare e ridicolizzare quello che è l'effetto e non la causa del problema. "Un cittadino su tre non è andato alle urne" scrive Massimo Fini su Il fatto quotidiano del 30 marzo "E fra coloro che ci sono andati una fetta cospicua appartiene agli apparati, ai clientes, ai favoriti di tutte le risme. Se si fa questa ulteriore tara, il 'voto libero' dato in buona fede, si riduce a ben poca cosa. A ciò si aggiunga che la stragrande maggioranza dei giovani [...] ha disertato le urne. Non per abulia ma perchè questo sistema, che penalizza ogni futuro, gli fa schifo. Cosa rimane quindi in mano ai partiti? Nulla, se non il loro potere abusivo".
Prendere coscienza di tale status quo sarebbe già un passo significativo nella direzione giusta. Ma lo stadio successivo, più complesso, è quello della riflessione sulle cause che hanno portato il distacco della politica dai cittadini, problema rispetto al quale l'astensionismo è solo una reazione. "Adam Smith" scrive Noam Chomsky su Internazionale del 12 marzo "sosteneva che 'gli artefici principali' della politica inglese del suo tempo, erano 'i mercanti e i proprietari delle manifatture', che proteggevano i loro interessi 'in modo particolare' anche se le conseguenze sugli altri, compreso il popolo inglese 'erano penose'. La teoria di Adam Smith è ancora valida, ma oggi gli 'artefici principali' sono le multinazionali e soprattutto le istituzioni finanziarie".
Il fatto che si possa percepire o sospettare che la politica non risponda al demos ma ad altri soggetti, oltre che, spesso, direttamente a se stessa in una spirale di autoreferenzialità preoccupante, è un elemento drammatico da analizzare a fondo, per riportare i cittadini ad avere fiducia non nel voto in sé, ma nella stessa Democrazia.

sabato 6 marzo 2010

VOTO A PERDERE

Un'urna elettorale (wikipedia.org)


Il 28 marzo gli italiani si recheranno a votare per le elezioni regionali in un contesto economico politico e sociale molto teso. Entrate fiscali e pil in calo, debito e disoccupazione in ascesa e prospettive di crescita piuttosto fosche. Fioccano da tempo, inoltre, inchieste giudiziarie che coinvolgerebbero esponenti politici di ambo gli schieramenti, imprenditori e funzionari pubblici ed elementi della malavita locale e organizzata. Tutti legati, secondo quanto emerso in special modo dalle intercettazioni telefoniche, da una spiccata sete di denaro, pubblico naturalmente. Se si considera infine, la vicenda grottesca della mancata presentazione, per le stesse consultazioni del 28 marzo, di alcune liste legate a partiti politici di spicco, emerge un quadro sconfortante di delegittimazione e inaffidabilità che investe in maniera preoccupante, ormai, la stessa democrazia rappresentativa nel nostro Paese. Tale situazione di inabissamento etico della politica, ormai patologia in Italia, non risparmia però le altre Nazioni.
"Ormai in Occidente la politica è un prodotto come tanti altri" scrive Loretta Napoleoni su Internazionale del 5 marzo "viene venduto attraverso gli spot pubblicitari, con l'aiuto di uomini e donne (poche) che recitano un copione scritto dalla raffinata macchina della propaganda. Gli acquirenti naturalmente siamo noi, i cittadini consumatori. Lo scopo? I soldi più che il potere". Prodotto, vendere, spot, consumatore. Un linguaggio più consono al marketing che alla gestione della Cosa Pubblica, e non è un caso. "I partiti somigliano sempre più a un'azienda e sempre meno a un'organizzazione che ha un programma politico" aggiunge la Napoleoni "Questo spiega perchè nel 1999 la Enron ha finanziato metà della campagna elettorale di George W. Bush. In cambio, una volta eletto, Bush ha concesso al gruppo energetico la tanto desiderata deregulation del settore. Il principio della democrazia-mercato è quindi il classico do ut des, anche quando il baratto costringe il partito a contraddire il suo programma".
E i numeri solo lì a testimoniare il progressivo abbandono della politica s.p.a. da parte dei cittadini: "Tra il 1978 e il 1999 i partiti francesi hanno perso il 64,5% degli iscritti", prosegue l'economista italiana su Internazionale "pari a circa un milione di persone, mentre il numero dei tesserati nei partiti italiani e britannici si è dimezzato". Con l'inevitabile conseguenza che "Il partito azienda è ormai una struttura politica ed economica 'personale' che tutela esclusivamente gli interessi dei politici e dei loro sponsor".
Un'analisi impietosa che non può che far riflettere sul ruolo che gli aventi diritto al voto hanno oggi e sulla strada che, ormai da tempo, le democrazie rappresentative hanno scelto di percorrere. Un sentiero che conduce lontano dai cittadini. "I partiti in competizione per il potere" scrive Massimo Fini nel suo provocatorio articolo La truffa democratica pubblicato su Il fatto quotidiano del 27 febbraio "hanno bisogno del consenso, e non bastandogli la propaganda e il controllo, diretto e indiretto dei media (che, non a caso, sono chiamati spudoratamente 'gli strumenti del consenso', senza nemmeno più rendersi conto di quanto ciò li squalifichi), se lo comprano. E per comprarselo hanno bisogno di soldi, che si procurano con le tangenti, gli affari illegali e ruberie di vario genere".
È stata la stessa Corte dei Conti, d'altra parte, a richiamare recentemente l'attenzione dell'opinione pubblica italiana sull'aumento delle denunce per corruzione relative al 2009. Un +229% che ha spinto Tullio Lazzaro, presidente della magistratura contabile, a lanciare un vero grido d'allarme.
La politica, per essere realmente legittimata, deve essere credibile agli occhi dei cittadini. Condizione imprescindibile per questo è l'onestà nell'operare per perseguire l'interesse della collettività. Fino a quel momento non ha senso parlare di rappresentatività.


sabato 6 febbraio 2010

TUTTO IL MONDO È PIGS

Europa meridionale (con i conti) in rosso (en. wikipedia.org)



Portogallo, Italia, Grecia, Spagna. Pigs, considerando solo le iniziali di questi Paesi dell'Europa meridionale. Un acronimo coniato alcuni anni fa da economisti britannici e statunitensi che va a formare una parola inglese dal significato inequivocabile: pigs, porci, maiali. I suddetti suini sarebbero le Nazioni mediterranee dell'Unione europea con i bilanci storicamente e cronicamente in rosso. Politica fiscale deficitaria, debito pubblico tanto grande da costituire un pericolo per la stessa stabilità dell'eurozona e prospettive plumbee di sviluppo. Questo il ritratto impietoso dei pigs dipinto dagli esperti di mezzo mondo.
È la Grecia a dare le maggiori preoccupazioni, al punto che recentemente la commissione europea ha deciso di mettere Atene sotto semi-tutela per un debito pubblico di 300 miliardi di euro. Una situazione drammatica, comune anche al Portogallo, altro imputato del Club Med, ulteriore ironico appellativo utilizzato per descrivere i pigs. L'economia lusitana è infatti caratterizzata da un rapporto debito/pil pari al 76,6%. Altissimo per un Paese di 10 milioni di abitanti. Senza dimenticare la Spagna, entrata in recessione nel 2008, con un debito pubblico schizzato negli ultimi 2 anni dal 36,2% al 55,2% del pil e destinato, secondo Madrid, a raggiungere il 74,3% nel 2012. Un tracollo. Politiche da lacrime e sangue sembrano l'unica via d'uscita per tamponare le falle, sperando nella ripresa. E l'Italia non è certo da meno, anche se per ora non è sotto i riflettori nella stessa misura di ellenici, portoghesi e spagnoli. Il debito pubblico del Belpaese si attesta infatti al 115% sul Pil, con la cifra esorbitante di 1.800 miliardi di euro. Sei volte quello della Grecia, 40 punti percentuali in più rispetto al rapporto debito/pil del Portogallo e 60 in più rispetto a quello degli spagnoli. D'accordo, la Grecia ha 11 milioni di abitanti, il Portogallo 10 e noi 60, e la nostra economia non è certo quella dei competitors del sud Europa, ma le cifre sono ugualmente preoccupanti.
Ma non sono solo i pigs a risentire gravemente della crisi. Gli Usa hanno perso altri 20 mila occupati a gennaio, a fronte di un aumento atteso di 5 mila unità e il tasso di disoccupazione supera il 10% con picchi del 15 in alcuni Stati. Intanto le banche hanno ridotto il credito lasciando in difficoltà milioni di persone e tante piccole e medie aziende destinate a fallire, lasciando altri disoccupati sulla strada. "Obama vuole recuperare i fondi concessi ai grandi istituti per creare banche comunitarie che offrano prestiti su scala locale" scrive Manuel Castells su Internazionale del 5 febbraio "Vuole introdurre incentivi fiscali per le aziende che assumono e riattivare gli investimenti per le infrastrutture. Ma la vera difficoltà [...] sta nel dover remare contro la corrente di interessi profondamente radicati nel sistema. In campo economico" scrive ancora Castells "Wall Street ha sempre dettato le sue politiche tutelando prima di tutto i propri interessi".
In grave difficoltà anche il Giappone, dove la crisi ha fatto scendere i salari del 3,9% nel solo 2009, il terzo anno di fila con segno negativo. Per non parlare dell'Irlanda, ex tigre celtica sull'orlo del default e, soprattutto, del Regno Unito, su cui circolano notizie da tregenda. Dal Telegraph del 20 gennaio 2009, articolo di Lain Martin ripreso dal blog Crisis.blogosfere.it: "Il Paese guarda il precipizio. Siamo a rischio della peggiore umiliazione, con Londra che diventa una Reykjavik sul Tamigi e l'Inghilterra che finisce sott'acqua. Grazie all'arroganza alla presuntuosa incompetenza seriale del governo e di un gruppo di banchieri, la possibilità di una bancarotta nazionale non è irrealistica". L'Independent del giorno successivo con Sean O'Grady, rincara: "Uno dei principali investitori mondiali dà voce alle preoccupazioni del mercato. Jim Rogers, cofondatore della Quantum con George Soros, dichiara a Bloomberg: 'Vi consiglio urgentemente di vendere tutte le sterline che avete. È finita. Odio dirlo, ma non metterei più denaro nel Regno Unito'". E per concludere degnamente, il Guardian del 19 gennaio: "In privato" scrive Patrick Wintour "qualcosa di molto somigliante alla disperazione sta cominciando a serpeggiare nel governo. Dopo aver visto lo scivolone delle banche, un Ministro del Gabinetto inglese non scherzava quando ha detto: 'Le banche sono fottute, noi siamo fottuti, il Paese è fottuto'". Quando si dice aplomb britannico...
E mentre il Fondo Monetario Internazionale, per il prossimo biennio, parla di "ripresa molle" nell'eurozona, "con tanta disoccupazione e consumi limitati", l'Ucraina, altro Paese dilaniato dalla crisi e in bancarotta, con l'elezione del filorusso Viktor Yanukovich alla presidenza della Repubblica, saluta la rivoluzione arancione del 2004 e con essa l'Europa e la Nato, tornando tra le braccia di Putin.
I pigs sono in buona compagnia a ben vedere, ma non è il caso di bearsi delle comuni disgrazie. Bisogna piuttosto affrontare i problemi alla radice riformando il sistema economico finanziario nel suo complesso. "Non solo sistema politico," scrive ancora Castells su Internazionale "ma anche sistema di istituzioni e di interessi che si intrecciano perchè tutto sia sotto controllo, indipendentemente da chi sia al governo". Con buona pace della Democrazia rappresentativa.


martedì 19 gennaio 2010

RUGBY, UNO SPORT TRA STORIA E MITO

La statua di William Webb Ellis nella Public School di Rugby

Tutto ebbe inizio con una corsa. Quella di William Webb Ellis, studente della public School di Rugby, cittadina inglese del Warwickshire, considerato il creatore di una tra le discipline più affascinanti del mondo. Un pomeriggio di novembre del 1823, infatti, gli allievi dell’istituto stavano giocando una partita di pallone tra classi nel Big Side, il terreno di gioco della scuola. Il giovane William, all’improvviso, "con grande disprezzo delle regole del football così com'era giocato a quell'epoca, prese il pallone tra le braccia e corse con quello, dando origine alla principale caratteristica del gioco del rugby". Recita così la targa ancora oggi conservata nel cortile del College, accanto alla statua di Ellis.
La celebrazione di un mito, la storia di un ragazzo di 16 anni povero e di origini irlandesi, alunno in una scuola per ricchi rampolli dell’aristocrazia britannica solo grazie al sussidio concesso dall’esercito inglese, dopo la morte in battaglia del padre James. Sempre ai margini, l’inventore del Rugby. Poi il destino di manifestò sotto forma di gesto rivoluzionario, creatore. Una bella favola di ribellione e libertà. E forse null’altro. L’unica fonte che conferma la storia della folle corsa nel Big Side, infatti, è Matthew Holbeche Bloxam, antiquario e compagno di scuola per qualche anno di Ellis, che per rispondere a una lettera pubblicata sul The Standard, nella quale ci si interrogava sulle origini dello sport ovale, pubblicò un articolo sul Meteor, il giornale della public school di Rugby. L’articolo ricordava l’eretica impresa: “
Nella seconda metà del 1823, circa 57 anni fa, fu provocato, senza alcuna premeditazione, quel cambiamento delle regole che distinse il gioco della scuola di Rugby da tutti gli altri. Un ragazzo di nome Ellis - William Webb Ellis - […] mentre giocava nel Bigside a football in quella metà dell'anno, raccolse la palla tra sue braccia. Stando così le cose, secondo le regole di allora, avrebbe dovuto correre verso l'indietro fin dove avesse voluto, senza lasciare la palla, perché gli avversari potevano soltanto avanzare fino al punto in cui aveva afferrato il pallone, e non potevano attaccare fino a quando lui non avesse calciato la palla o l'avesse piazzata a terra in modo tale che un suo compagno potesse calciarla. […] Ellis, per la prima volta, trasgredì questa regola e, impadronendosi della palla, anziché arretrare, corse in avanti con la palla in mano verso la linea di meta avversaria […]”.
Molti, tuttavia, nutrivano dubbi sulla veridicità della testimonianza così, nel 1895, sette anni dopo la morte del vecchio antiquario, la Old Rugbeian Society, associazione composta da ex allievi della scuola, decise di effettuare ricerche sulla questione. Ne venne fuori che ben pochi, tra coloro che avevano frequentato la Rugby School all'epoca di William Webb Ellis, si ricordavano di lui e inoltre nessuno aveva mai sentito parlare di quella corsa con la palla in mano. È certo, inoltre, che Ellis non ebbe più nulla a che fare con gli sviluppi del rugby successivamente al misterioso gesto del 1823, tanto che in realtà egli praticò il cricket e dopo la scuola divenne sacerdote. Fu un certo Jem Mackie, con un simile gesto negli anni '30, a ottenere una radicale modifica delle regole: la corsa in avanti con il pallone in mano, infatti, fu comunemente accettata dal 1839 e legalizzata nel 1841. Nonostante i meriti di Mackie, però, William Webb Ellis diventerà una leggenda. Il giovane orfano di origini irlandesi, morì il 24 gennaio 1872 a Mentone, in Francia. La sua tomba venne ritrovata solo nell’ottobre 1959, nel cimitero del Vecchio Castello della cittadina sulle Alpi Marittime e divenne subito luogo di pellegrinaggio per gli appassionati di rugby.

Una disciplina sempre al confine tra verità storica e fiaba, quindi, nata nel mito e cresciuta in esso fino ai giorni nostri. Oltre la corsa del giovane Ellis, infatti, troviamo la leggenda del Cucchiaio di legno, riconoscimento simbolico che viene ironicamente assegnato alla squadra che arriva ultima in ogni edizione del Sei Nazioni, antico torneo a cui partecipa dal 2000 anche l’Italia. Storia romantica quella del celebre cimelio, che fu assegnato per la prima volta all'Irlanda e al Galles ex aequo nel 1883. Fino al 1904, infatti, l'utensile esisteva veramente: William Bolton, giocatore inglese, introdusse la tradizione per "gratificare" i colleghi irlandesi, sempre sconfitti. Il cucchiaio, acquistato da Bolton durante una vacanza in Svizzera nel cantone dei Grigioni, era simile a quello che i produttori elvetici di formaggio utilizzavano per girare il caglio. Dal 1904, però, per ignote vicissitudini, di tale “premio” si sono perse le tracce. Una delle innumerevoli leggende che avvolgono il mondo ovale vuole che il Cucchiaio di Legno sia oggi conservato in un austero maniero scozzese nelle isole Orcadi.
Non meno affascinante, poi, è la storia della Calcutta cup, uno dei trofei più antichi al mondo, assegnato per la prima volta nel 1879. A quei tempi
, nella città sul delta del Gange, si trovava una guarnigione composta da molti ufficiali inglesi che pensarono di costituire un club in cui ritrovarsi. Nel dicembre 1877, cinque anni dopo la sua fondazione, il Calcutta Football Club venne sciolto e i dirigenti ebbero l’idea di fondere le monete della cassa sociale per destinarle a un oggetto d'arte che ricordasse gli anni in Asia. Per questo si offrivano 60 sterline al fine di realizzare una coppa da mettere in palio annualmente. La Rugby Union nella madrepatria acconsentì e così vennero fuse le rupie in argento e plasmato il trofeo che ogni anno viene assegnato all'interno del Sei Nazioni, esclusivamente tra Inghilterra e Scozia.
Il presente si nutre di passato, così come la realtà si alimenta di mito.
"Il rugby è trenta uomini che inseguono un sacco di vento" diceva poeticamente Willie John Mc Bride, ex nazionale irlandese, e sembra essere questa la chiave di lettura di uno sport al contempo moderno e romantico.