domenica 18 gennaio 2009

ISRAELE TRA CONFLITTO E DEMOGRAFIA

La mappa dell'area mediorientale ( dal sito www.itongadol.com)



Il goveno di Israele, nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 2009 ha ordinato un cessate il fuoco unilaterale facendo tacere le armi dopo 22 giorni di offensiva militare nella Striscia di Gaza, per l'operazione denominata "Piombo fuso". Non è dato sapere se tale tregua sarà duratura o meno, ma appare necessario, ora, tracciare una linea e analizzare la situazione creatasi sul campo per poter tornare quantomeno a sperare nella ripresa di un processo di pace tra israeliani e palestinesi.
I numeri di queste tre settimane di guerra non possono lasciare indifferenti e anche se non è possibile quantificare il dolore, la lettura dei dati non può non essere il punto di partenza per qualsiasi ragionamento su quanto accaduto a Gaza e sul futuro della Terra Santa. "L'offensiva ha causato 1.203 morti palestinesi di cui 410 bambini e 108 donne, stimano i medici nella Striscia" scrive Davide Frattini sul Correre della Sera del 18 gennaio "I feriti sarebbero 5.300 di cui 1.630 bambini". Nessuno può dimenticare, però, i 13 morti sul fronte israeliano, di cui tre civili e, soprattutto, le migliaia di razzi lanciati dal movimento estremista Hamas nel sud dello Stato ebraico, una minaccia costante sulle città immediatamente a ridosso del confine.
Un'eredità pesantissima quella lasciata dall'ennesimo conflitto esploso nell'area mediorientale, un avvenimento che presenta molteplici chiavi di lettura. "L'offensiva a Gaza può danneggiare Hamas e ridurre la sua capacità di colpire il sud di Israele" scrive Tim McGirk del Time, articolo ripreso dalla rivista Internazionale "Ma, come è successo nel 2006 con Hezbollah, l'uso della forza non sarà sufficiente contro il fanatismo ideologico dei militanti islamici. Il sentimento di rabbia nei confronti degli israeliani che si sta diffondendo nella regione rende più difficile per i Paesi arabi unirsi a Israele nel tentativo di affrontare l'Iran, che finanzia e protegge sia Hamas che Hezbollah". L'operazione "Piombo fuso" può presentare quindi diversi lati negativi, dai costi economici elevati che inevitabilmente un conflitto porta con sè, alle perdite civili palestinesi, il cui alto numero rischia di danneggiare l'immagine di Tel Aviv nel mondo e di oscurare le responsabilità di Hamas.
Ma Israele, paradossalmente, può sbagliare anche fermandosi e trattando con il movimento palestinese che, a tregua acquisita, avrebbe l'opportunità di gridare alla vittoria come fece Hezbollah nel 2006. "Hamas sostiene che accetterà una tregua" prosegue McGirk "solo se Israele si ritirerà da Gaza allentando il blocco economico che strangola un milione e mezzo di palestinesi. [...]. Dopo settimane di indignazione per la catastrofe umanitaria di Gaza, qualsiasi mediatore insisterà per convincere Israele a mettere fine all'embargo, che dura ormai da diciotto mesi. E poi?. Come fece Hezbollah, anche Hamas dichiarerà di aver vinto. Non solo perchè sarà sopravvissuto a un attacco di una potenza militare molto più forte, ma anche perchè avrà liberato gli abitanti di Gaza". La guerra nella Striscia, quindi, secondo il giudizio di McGirk, avrebbe indebolito sia lo Stato ebraico sia gli alleati arabi moderati, divisi al proprio interno dopo i moti di piazza in favore della causa palestinese.
Senza dimenticare le problematiche interne ad Israele, ovvero il trend demografico che potrebbe portare cambiamenti strutturali nella società. "Oggi, tra 7,1 milioni di abitanti in Israele" sottolinea ancora McGirk "ci sono 5,4 milioni di ebrei e 1,6 milioni di arabi. Ma se si considerano anche quelli di Gaza e della Cisgiordania , gli arabi sono già in leggera maggioranza e, dato che il loro tasso di natalità è piuttosto alto, lo scarto aumenterà rapidamente". Diventare minoranza etnico-religiosa a casa propria, quindi, è il rischio che incomberebbe sugli ebrei di Israele se questi non rinunceranno a Gaza e alla Cisgiordania, un concetto ripreso recentemente dallo stesso Ehud Olmert, primo ministro israeliano uscente: "Se vogliamo manterene il carattere ebraico e democratico dello Stato di Israele" dice Olmert "dobbiamo inevitabilmente rinunciare, con grande dolore, ad alcune zone della nostra Patria".
La soluzione ideale, come noto, sarebbe la creazione di uno Stato palestinese al fianco di quello israeliano, con confini riconosciuti dalla Comunità Internazionale. Ma permangono dubbi su come realizzare questo proposito. "I leader israeliani" conclude McGirk "devono riconoscere che se Hamas non può essere battuto militarmente, dev'essere coinvolto a livello politico. Questo significa accettare l'idea di trattare con una sorta di governo di unità palestinese. [...] Un'alleanza tra Abu Mazen e Hamas è essenziale per il futuro dello Stato palestinese. Alla fine Israele dovrà ritirarsi entro i confini del 1967 e smantellare molti degli insediamenti. Solo allora i palestinesi e gli altri Stati arabi negozieranno una pace duratura".
Aspettando che la Storia faccia il proprio corso e gli uomini le proprie scelte, non resta che guardare a oriente con speranza.