lunedì 12 luglio 2010

GIOCO DI SQUADRA



La Spagna vince la sua prima coppa del mondo di calcio, completando così un cammino che negli ultimi anni l'aveva portata a primeggiare in molte discipline, dal basket al tennis fino alla formula 1 e al ciclismo. Mancava solo lo sport più popolare, quello che fa scendere in strada interi Paesi per festeggiare notti come quella del Soccer City. Domata l'Olanda nella finale di Johannesburg con il gol di Andres Iniesta, la Roja centra anche la storica doppietta europeo/mondiale, dopo il successo del 2008 in Austria-Svizzera. Eguagliate così la Germania Ovest, sul tetto continentale nel 1972 e su quello mondiale due anni più tardi, e la Francia che, con il percorso inverso, si aggiudicò prima la coppa dorata in casa nel 1998 e poi, nel 2000, l'europeo ai danni degli Azzurri. Finita l'epoca dei "belli e perdenti" e sfatato il tabù dei quarti di finale, gli iberici si impongono alla prima occasione utile: prima finale, primo titolo.
Hanno vinto i migliori, la squadra che più di tutte ha cercato di creare calcio facendosi largo in un torneo deludente e mediocre, povero di tecnica e ricco di delusioni. Senza stelle a illuminare il proscenio e a guidare le proprie compagini tatticamente incompiute, molte protagoniste annunciate si sono sfaldate alle prime difficoltà, evidenziando impietosamente le lacune e gli errori dei propri allenatori. Il primo mondiale in Africa ha decretato la rivincita del collettivo sui singoli, i quali non possono prescindere dal gruppo mentre quest'ultimo, invece, può con la propria organizzazione di gioco supplire alle mancanze dei campioni. Falliscono infatti Argentina e Brasile, giganti dai piedi d'argilla ricchi di talento inespresso e privi di un'idea, di uno spartito che facesse suonare armonicamente i singoli strumenti. Ci si affidava perciò esclusivamente all'estro del genio, che può sì fornire l'acuto finale che rende il tutto magnifico, ma quando attorno si sviluppa l'arte dell'orchestra, non in sostituzione di questa. L'Uruguay che ha sfiorato l'impresa con l'Olanda e il Paraguay che ha spaventato la Spagna neo campione ne sono testimoni, ma non solo loro. Dal Giappone al Ghana, fino al Cile e al Messico, tutte nazionali che hanno dimostrato di avere una struttura, un'anima.
Le stesse protagoniste della finale confermano questo dato, entrambe ricche di individualità poste, però, all'interno di un chiaro contesto tattico. Più "italiani" gli oranje, con Van Bommel e De Jong a costituire la diga di centrocampo, per fermare gli avversari e ripartire con le rapide geometrie di Robben, Snejder e Kuyt. Stelle che, tuttavia, non mancavano di ripiegare in aiuto della squadra, nelle fasi di difficoltà. Prima gli equilibri, quindi, poi la gloria personale. Discorso analogo per gli spagnoli, pur votati al bel calcio e al possesso palla con la classica, infinita rete di passaggi in mezzo al campo. Giocatori di grande tecnica come Xavi, Iniesta, Xabi Alonso e Busquets, con un altro giocoliere come Fabregas in panchina, hanno concretizzato al meglio l'idea di vincere divertendo, da tempo concetto guida del futbol iberico. La teoria che diviene realtà attraverso gli uomini, giocatori che agiscono insieme, ognuno interpretando il proprio ruolo appieno e mettendo fantasia ed estro al servizio dell'obiettivo.
La Spagna ha vinto dopo aver atteso molto tempo, dopo aver fatto maturare talenti che oggi incantano il mondo giocando a memoria un ottimo calcio. La Roja raccoglie il testimone dall'Italia di Berlino 2006, che ha fortemente deluso in Sudafrica e che, per l'avvenire, deve seguire lo stesso modello dei neocampioni: rinnovamento, programmazione, giovani e pazienza. Non semplicemente per vincere, ma soprattutto per dare un segnale di cambiamento, non solo nel calcio.