lunedì 13 settembre 2010

LA FELICITÀ AI TEMPI DEL DENARO




L'accesso al denaro, nella moderna società dei consumi, è considerato universalmente il fattore chiave per coronare il sogno di una vita stabile e serena. Il mercato, infatti, mette a disposizione di chi è maggiormente solvibile un'infinità di prodotti che, complici le sempre più sottili tecniche di marketing e la quotidiana spinta all'acquisto costituita dalla pubblicità, superano i limiti connessi al proprio essere semplici oggetti e divengono veri e propri surrogati della felicità. Da mezzi utili a rendere più agevole la vita, a fine ultimo della stessa.
"Nella teoria economica classica di stampo utilitaristico, tuttora dominante, così come nell'immaginario contemporaneo prevalente" scrive Paolo Cacciari, autore di Pensare la decrescita, equità e sostenibilità "vi è una corrispondenza diretta, automatica, tra 'ricchezza' e 'felicità', tra abbondanza e benessere, tra prosperità economica e tenore di vita delle persone e delle popolazioni. Gli economisti illuministi del '700 pensavano l'economia come 'scienza della felicità pubblica' e nella Dichiarazione di indipendenza della Virginia (1776) Thomas Jefferson introduce tra i diritti inalienabili di 'tutti gli uomini': 'la vita, la libertà e il perseguimento della felicità'".
La disponibilità di denaro costituisce indubbiamente un fattore determinante nell'affrontare le vicissitudini della quotidianità, ma è altresì vero che, partendo da tale concezione, si è arrivati a una sovrapposizione semplicistica tra bene materiale e immateriale, tra mezzo e fine. Tale inquietudine è condivisa anche da larga parte del mondo economico e spinge da tempo a riflettere sull'economia della felicità, "una sottodisciplina delle scienze economiche politiche" aggiunge Cacciari "che si interroga sulle relazioni tra crescita economica e condizioni psicologiche per tentare di caratterizzare, misurare e contabilizzare le interrelazioni tra tenore di vita e felicità". Una nuova unità di misura per il benessere delle società, quindi, alternativa al tradizionale Pil, per rispondere efficacemente non già a interrogativi strettamente economici, ma a problematiche legate alla way of life occidentale.
"Il primo Paese che ha deciso di cambiare la sua unità di misura del progresso" scrive il sociologo spagnolo Manuel Castells su Internazionale del 10 settembre "sostituendo il calcolo del Pil con l'indice di felicità nazionale lorda è il Bhutan" sin dal 1972. "L'indice combina tra loro quattro obiettivi: sviluppo economico equo e sostenibile, in cui la crescita si traduca in benefici per i cittadini, la conservazione dell'ambiente naturale, la difesa dell'identità culturale butanese, un buon governo che garantisca stabilità istituzionale e sociale. [...] Questa nuova prospettiva si è estesa a tutto il mondo [...] e così sono emerse alcune cose interessanti. Per esempio che i ricchi sono più felici dei poveri, ma i Paesi ricchi non sono più felici di quelli poveri. Gli abitanti della Costarica sono più felici di quelli degli Stati Uniti, perchè la felicità dipende dalle aspettative ma anche dalla stabilità".
Opulenza in sé, quindi, può non significare automaticamente progresso e qualità della vita, anche perchè questi concetti si legano a parametri difficilmente quantificabili in termini strettamente economici. Senza dimenticare che, spesso, l'uomo tende a trascurare gli aspetti più profondi e preziosi della propria vita per il lavoro, inteso principalmente come strumento di accumulo. "Se per ottenere ciò che voglio" scrive Cacciari "devo sacrificare sonno, salute fisica e mentale, relazioni affettive, patrimonio comune etc., la mia qualità della vita diminuisce anziché aumentare. [...] Se questo permanente sforzo produttivo non centra l'obiettivo del maggiore benessere individuale, che senso ha compierlo? [...] L'economia di mercato di stampo liberista ha una logica intrinseca: la crescita, la creazione di profitto, l'accumulazione. Il quesito che si pone è questo: se le merci non sono più utili al benessere e alla felicità della gente, ha ancora un senso sociale l'economia di mercato? Ha senso continuare a far crescere produzione e consumi quando le dispense sono piene? Non sarebbe più logico e sensato porre l'accento su altri obiettivi, quali l'equa distribuzione delle risorse e dei prodotti e sulla sostenibilità ecologica del sistema?".
Produciamo e consumiamo di più, quindi, ma non per questa ragione siamo più sereni e le nostre vite più stabili. Focalizzare il problema costituirebbe un primo passo nella direzione giusta, quella della consapevolezza, l'autocoscienza che segna l'inizio del cammino verso una soluzione comunque non semplice né immediata. "Il concetto di felicità" conclude Castells "data la difficoltà di misurarlo, si è trasformato in quello di utilità e il suo criterio di misura è diventato il prezzo. Ma il consumo individuale non può sopperire ai bisogni che il mercato non è in grado di soddisfare, dal bisogno di affetto a quello di difendere i beni comuni (come la Natura)".
Prima che di una nuova teoria economica serve un'idea diversa di essere umano, quindi, non concepito semplicemente come risorsa umana o consumatore, termini utilizzati con sorprendente distacco da chi, non accorgendosi di quanto siano umilianti, finisce per insultare anche se stesso.

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