venerdì 25 giugno 2010

COME TE NESSUNO MAI




La nazionale italiana torna ignominiosamente a casa al primo turno del mondiale sudafricano senza neppure una vittoria. Non era mai accaduto prima. Neanche nel famigerato 1966, quando non superammo il girone perdendo anche con la Corea del Nord, ma almeno battemmo 2-0 il Cile. Per non parlare del 1974, quando sì, uscimmo subito, ma "spezzammo le reni" ad Haiti con un tondo 3-1. I peggiori di sempre, quindi, con il piccolo dettaglio che stavolta eravamo campioni uscenti, e ora, con ironica velocità dal participio presente a quello passato, solo usciti.
Di solito le sconfitte sono orfane contrariamente alle vittorie che, come ci insegna il 2006, hanno parecchi genitori putativi, ma stavolta non è possibile prescindere dall'enormità di quello che è successo. Prendersela con Marcello Lippi è sicuramente appagante nell'immediato, per tutte le conferenze stampa e interviste in cui il tecnico viareggino ha elargito arroganza e presunzione a piene mani, ma non aiuta a riflettere sulle cause del disastro.
Il gran numero di stranieri nelle squadre di club non è un'esclusiva italiana, caratterizza tutti i maggiori campionati a cominciare dalla Spagna, la cui nazionale è campione d'Europa in carica ed esprime talenti immensi. Senza contare che, quando gli Azzurri vinsero a Berlino, i team di serie A erano già pieni di giocatori non italiani. Oltre l'evidente mancanza di impegno che ha contraddistinto le gare dell'Italia in Sudafrica e che, probabilmente, è la prima causa di una simile disfatta in uno dei gironi più ridicoli che si siano mai visti ad un mondiale, vi è forse un problema più generale di pianificazione e strategia, legato alla mancanza di idee che possano permettere di gettare le basi per un rinnovamento vero del sistema calcio.
Le società di club, specie quelle più blasonate, sono condannate a vincere nel più breve tempo possibile e, come qualsiasi altra azienda privata, lo devono fare con il minore costo economico possibile. Questo accade perchè nella maggioranza dei casi i club si autofinanziano, e non possono permettersi bilanci avventurosi. Massimo risultato col minimo sforzo. In quest'ottica è molto più redditizio puntare su giovani promesse straniere da portare in Italia a prezzi di saldo, non potendo le società di calcio delocalizzare in Romania e Thailandia come altre imprese "globalizzate", piuttosto che costruire o puntare su un vivaio che darebbe frutti solo dopo diversi anni. Il tempo stringe e le vittorie servono subito. Tale discorso vale, però, anche per i pochissimi presidenti paperoni che, potendosi permettere acquisti scenografici grazie all'infinita disponibilità di denaro, preferiscono puntare su campioni affermati di sicuro e garantito rendimento per conseguire importanti vittorie senza dover attendere troppo. In entrambe le situazioni a perderci sono i ragazzi autoctoni, che hanno spazio solo in quelle realtà che storicamente hanno fatto la scelta della valorizzazione del vivaio, oppure nelle piccolissime società relegate nelle serie minori. Giovani che nessuno vedrà mai, o almeno prima che quello stesso club chiuda per mancanza di fondi o che le esigenze della vita convincano il giocatore a trovarsi un lavoro normale.
Il calcio italiano sta soffocando, togliendo linfa alle proprie radici e optando per la navigazione a vista piuttosto che su una rotta che porti da qualche parte. Un aspetto che unisce curiosamente il pallone ad altri ambiti e contesti nostrani. "Di sicuro l'impressione che dà questa spedizione" scriveva Oliviero Beha su Il Fatto Quotidiano del 22 giugno, due giorni prima della vergogna con la Slovacchia "è quella che dà la classe dirigente del Paese: senza ricambi, senza reale meritocrazia, senza gusto del rischio, senza umiltà, senza autocritica. È raro che una situazione riassuma in sè uno status generale: mi sembra proprio che la Nazionale del secondo Lippi riesca a tracciare questo affresco pericolante in modo splendido e compiuto. È come se dal Sudafrica ci fotografassimo come Paese con l'autoscatto".
"L'Italia riparte da voi", sentenziava il Presidente Napolitano all'indomani del trionfo di Berlino nell'estate del 2006, sperando che la quarta stella fungesse da spinta salvifica per una redenzione che andasse oltre lo sport. Quattro anni dopo quelle auliche parole ci troviamo di fronte un Paese che, esattamente come i propri ex beniamini, non solo non si è mai mosso, ma se anche riuscisse a farlo non saprebbe dove andare. Auguri.